Vuoi affrontare al meglio una riunione? Portati una bottiglietta d’acqua

Siamo oramai piuttosto consapevoli che ad ogni emozione corrisponda una specifica mimica facciale e specifici movimenti del corpo, dove la prima è sintomo dell’emozione provata, mentre i secondi sono il modo in cui reagiamo a essa. Ad esempio, se durante una conversazione diciamo qualcosa che fa irritare il nostro interlocutore, il suo volto manifesterà tale emozione (rabbia) e poi, ragionevolmente e in reazione a essa, il suo corpo assumerà una o più posizioni tipiche di chiusura, rendendo evidente il disappunto per ciò che è stato detto e la non volontà a proseguire su quella linea (chiusura, appunto).

Se in qualche modo siamo consapevoli di come gestire situazioni come quella appena descritta, ad esempio correggendo ciò che è stato detto, nella speranza di rompere la chiusura del nostro interlocutore, meno sappiamo su come gestire un atteggiamento negativo quando questo non dipenda direttamente dall’oggetto della conversazione, ma ad esempio sia legato a qualcosa che è successo prima e che, tornando alla memoria del nostro interlocutore, lo porti a riviverlo, facendo sì che la negatività del ricordo inquini l’armonia della conversazione.

Infine - e qui forse ne siamo ancora meno consapevoli - non dobbiamo dimenticarci del comportamento basale, che in alcuni può essere tale da far assumere, in modo del tutto sconnesso dell’oggetto della conversazione, posture che, a una lettura superficiale, possono essere considerate negative (di chiusura, di fuga, …). Io stesso, ad esempio, ho la tendenza incrociare le braccia e lo faccio “perché mi sento più comodo”. Lo faccio inconsapevolmente, quindi, senza alcuna connessione con ciò che sto dicendo o con chi sto ascoltando; tuttavia, principalmente perché opero in questo campo, me ne accorgo e so che ciò che osservano i miei interlocutori trascende le motivazioni che guidano questo mio gesto e che, quindi, la loro lettura sarà probabilmente negativa e, peggio ancora, potrà condizionare il prosieguo della conversazione, motivo per cui abbandono subito tale postura, sperando che la sua manifestazione, seppur breve, non abbia avuto conseguenze significative.

Non va poi dimenticato, come hanno dimostrato numerose ricerche, che i fattori strutturali e quelli biologici sono in stretta interconnessione con i fattori psicologici, ovvero i vissuti emotivi, le percezioni, le sensazioni, e i bisogni, cosa che crea uno stretto legame, non solo tra emozioni e postura, ma anche il viceversa, dove l’assumere e il perdurare di una certa postura induce nell’individuo lo stato emotivo del quale tale postura è normalmente espressione[1], dando luogo a un circolo funzionale o disfunzionale a seconda delle circostanze (1).

Riassumendo, abbiamo da un lato una postura assunta dal nostro interlocutore e, dall’altro, differenti motivazioni che possono aver portato ad assumerla, motivazioni che potrebbero essere ragionevolmente evidenti, come quando ciò sia dovuto a qualcosa che abbiamo appena detto, ma anche completamente oscure, cosa che si verifica quando queste affondano le loro radici in un’esperienza pregressa del nostro interlocutore o, più semplicemente, sia naturale conseguenza delle sue abitudini posturali.

Questa parziale conoscenza sulle motivazioni, che ovviamente non sempre possiamo indagare, dato che stiamo affrontando una conversazione e non conducendo un interrogatorio, ci lascia come unica alternativa quella di provare a rompere la postura - sto ovviamente limitando il discorso a posture dal conclamato significato negativo - nella speranza di interrompere anche la connessione che questa ha con la componente psicologica, cosa che non necessariamente risolverà il potenziale problema ma, quantomeno, dovrebbe attenuarne gli effetti.

Se ad esempio pensiamo all’incrociare le braccia, una delle più note posizioni di chiusura, ecco che allora entra in gioco la nostra bottiglietta d’acqua, che da un lato rappresenta un oggetto comune e legittimo in una riunione, dall’altro un eccellente strumento di interruzione, porgendola ad esempio al nostro interlocutore e chiedendogli di aiutarci ad aprirla, adducendo per noi una qualche impossibilità a farlo (un dolore muscolare, una mancanza di forza, …), cosa che avrà peraltro un doppio effetto: quello di rompere la postura e quello di gratificare il nostro interlocutore per averci aiutato a fare qualcosa che, da soli, non riuscivamo a fare[2].

Si tratta, in sostanza, di agire sul segno anziché sul sintomo, che se da un punto di vista medico può rappresentare una semplificazione azzardata, da quello della comunicazione è spesso l’unica strada percorribile, dato che raramente si è in grado di fare un’anamnesi del gesto senza che ciò comporti un’interruzione della conversazione in atto.

In conclusione, ricordiamoci sempre che esiste una forte connessione tra ciò che proviamo e il modo in cui lo manifestiamo e che questa connessione, diversamente da quanto si possa comunemente pensare, agisce in entrambi i versi e benché sarebbe sempre preferibile agire sulla componente emotiva (interiore), non sempre ciò è possibile, lasciandoci come unica alternativa quella di farlo sulla componente fisica (esteriore), confidando che questo si rifletta, almeno in parte, su ciò che non abbiamo potuto indirizzare direttamente. 

Andrea Zinno - De Corporis Voce


Note

[1] È proprio su queste ricerche, ad esempio, che si basa l’oramai celebre “terapia del sorriso” (2), dove l’induzione nei pazienti di uno stato di allegria ha diretti benefici fisiologici, che migliorano sostanzialmente il loro stato clinico.

[2] Questo secondo effetto, tuttavia, deve essere valutato con attenzione, soprattutto quando il nostro interlocutore mostri un atteggiamento di superiorità o dominanza, visto che in questo caso l’averci aiutato potrebbe esacerbare ancora di più tale atteggiamento, peggiorando ancora di più la situazione.

Riferimenti bibliografici

  1. Allan Pease e Barbara Pease - “The Definitive Book of Body Language” - 2006
  2. Psychology Today - “The Benefits of Clown Therapy” - 2018