Pregiudizio e pre-giudizio nella comunicazione non verbale

Viviamo in un contesto ontologico, sociale e culturale che governa ciò che siamo, ciò che facciamo e come e perché lo facciamo (1). Non è un limite, né tantomeno un vincolo. È un dato di fatto, ineluttabile, prodromico del potersi reciprocamente comprendere, comunicare e interagire.

Questo contesto si evolve nel tempo, esattamente come si evolvono le altre cose che ci circondano e, seppur questa evoluzione si realizza con differenze locali - differenze sociali e culturali tra diverse etnie sono, ad esempio, ben note a tutti - esiste un’intersezione significativa, sancita dall’essere fisicamente simili e dall’essere parte di uno stesso mondo reale e le diversità locali non sono tanto forti da poter frantumare questa fondamentale parte comune (per contro, sul tema dell’importanza della similitudine fisico-concettuale, si veda l’affermazione “Se un leone potesse parlare, non lo capiremmo” di Wittgenstein (2)).

L’essere parte di un tale contesto, pur con le differenze appena descritte, se da un lato rappresenta una sorta di fondamento gnoseologico, che fissa i confini di ciò che sappiamo e possiamo ambire a sapere, dall’altro rappresenta anche un potenziale vincolo per la nostra abilità nel passare da modelli generali a modelli privati, che entrano in gioco quanto l’interazione si realizza con soggetti specifici, che hanno un proprio vissuto e un proprio privato, i quali agiscono come elementi di specializzazione e caratterizzazione dei modelli più generali.

Ogni interazione, ogni comunicazione, avviene sempre “qui e adesso” e, sebbene questa si fondi sul carattere prescrittivo dei modelli generali - ogni modello, inevitabilmente, detta anche le regole che gli consentono di manifestarsi nella sua rappresentazione estensiva - non può non tener conto del vissuto del singolo, del suo stato emotivo del momento, di ciò che è accaduto prima, di ciò che sta accadendo adesso e di ciò che, verosimilmente, potrebbe accadere dopo.

In definitiva, quindi, quando interagiamo e comunichiamo con qualcuno, verbalmente o non verbalmente, ci portiamo inevitabilmente dietro un insieme di informazioni, che rappresentano la nostra conoscenza a priori, la nostra cassetta degli attrezzi, che ci consentono di ascoltare, osservare, parlare e comprendere ciò che accade in tale interazione.

Questa conoscenza, tuttavia, non sempre è un valore e il passaggio dall’essere un elemento abilitatore alla comprensione al diventare un forte vincolo per essa sta tutto in un trattino, che separa il “pre-giudizio”, a priori e inevitabile, ma legato ai modelli ed evolvibile con essi (“è così, ma potrebbe anche essere diverso”), dal “pregiudizio”, a priori e inevitabile, come il primo, ma che ne è la versione sclerotizzata, radicata così fermamente nelle convinzioni personali dall’essere impermeabile a qualsiasi tentativo di analisi razionale (“è così e basta”) (1).

Il pre-giudizio è ciò che sappiamo, che siamo disposti anche a rivedere, e che rappresenta una condizione sine qua non affinché ogni interazione sia realmente possibile; il pregiudizio è ciò in cui fermamente crediamo e che, al contrario, non siamo disposti a mettere in discussione e che, quindi, vizia ab origine ogni possibile interazione con gli altri.

Personalmente credo che entrambi questi due elementi abbiano come origine comune quella della progressiva formazione della nostra conoscenza sul mondo e su ciò che lo abita e lo vive. La nostra continua interazione con esso, crea un continuo flusso di informazioni e sta a noi decidere se e come farle proprie, sapendo distillarle in base a ciò che siamo e che vorremmo essere, in base all’intenzionalità (5) che, in ciascuno di noi, caratterizza il nostro essere-nel-mondo (per dirla con Heidegger (3)).

Esiste - e vorrei dire, inevitabilmente - un momento in cui il modo in cui queste informazioni si sedimentano sancisce la differenza tra il pre-giudizio e il pregiudizio. Forse dipende dalla costanza con cui certe informazioni ci arrivano, forse dal contesto locale nel quale viviamo (la famiglia, gli amici, l’oratorio, …), forse dal nostro vissuto e dallo stato emotivo che lo ha caratterizzato o, forse e più probabilmente, da tutte queste cose messe insieme.

Questo momento, quando si palesa, è come se mettesse in modalità di sola lettura quella parte di conoscenza relativa a ciò che comincia a sclerotizzarsi e che, in breve, perderà il suo valore positivo, per trasformarsi in una sorta di lente offuscata, la cui sfocatura dipenderà dalla forza del pregiudizio, che ci renderà possibile vedere e comprendere solo parzialmente ciò che in futuro osserveremo.

Se ci chiediamo allora quale ruolo giochino questi due elementi nella comunicazione non verbale, l’unica risposta possibile non può che essere quella che rimanda ai fondamenti stessi di tale disciplina, quei fondamenti che ci ricordano come sia di importanza vitale non perdere mai di vista la regola delle “3 C” (Contesto, Complesso e Coerenza) e tenere sempre in considerazione il comportamento basale (in sostanza, le loro abitudini gestuali) dei nostri interlocutori.

Se la regola delle “3 C” ci ricorda quando sia importante l’analisi complessiva di ciò che i nostri interlocutori esprimono attraverso l’uso di tutti i loro strumenti comunicativi (elementi verbali, para-verbali e non verbali) e, in particolare, la coerenza tra ciò che tali strumenti producono, il comportamento basale traccia invece un profilo del nostro interlocutore, di ciò che abitualmente fa e di come lo fa (gesticola molto o poco? Ha una mimica facciale da attore consumato o è una maschera di cera? E così via).

Tuttavia, se la regola delle “3 C” ha un carattere metodologico, in quanto ci dice come condurre l’analisi e si fonda essenzialmente su ciò che accade dal momento in cui l’interazione ha inizio, sino a quando questa termina (sto volutamente semplificando, visto che il modo in cui ciascuno di noi applica tale metodologia è comunque influenzato dalla nostra singolarità), il comportamento basale, per contro, rappresenta ciò che noi sappiamo - e potremmo non saperne nulla - dei nostri interlocutori e, quindi, in sostanza, è nel comportamento basale che si annida il rischio della trasformazione del pre-giudizio nel ben più nefasto pregiudizio.

La prima cosa che dobbiamo allora accettare è che il comportamento basale, rappresentando in un certo senso il passato, la storia dei nostri interlocutori, non certifica in modo assoluto che il presente (ricordiamoci sempre il “qui e adesso”) ne ricalcherà i passi e che, quindi, ciò che sappiamo della gestualità abituale dovrà necessariamente presentarsi. Un gesticolatore abituale, ad esempio, potrebbe avere in quel momento un dolore articolare che gli impedirà di comportarsi come noi ci aspettiamo, oppure una persona notoriamente poco incline alla gestualità, potrebbe toccarsi frequentemente una parte del corpo, significativa per l’interpretazione del linguaggio non verbale, a causa di un particolare suo stato di salute o, infine, un soggetto normalmente sorridente e aperto, potrebbe, a causa di un suo particolare stato emotivo, intenso e scisso da ciò che sta accadendo nell’interazione, assumere una mimica facciale diversa dal solito, seria e dolorosa, che nulla ha a che fare con ciò che viene detto (qui, peraltro, si realizza un’importante connessione tra la C che rappresenta il contesto e il comportamento basale, una connessione che ci dice che la storia passata incide sul presente, ma non lo vincola).

Altro aspetto fondamentale, al di là della sua completezza, che può variare da una conoscenza profonda, intima (si pensi a quanto conosciamo il comportamento basale del nostro partner o dei nostri figli), fino a una non conoscenza assoluta (come è il caso di una persona che incontriamo per la prima volta), è il modo in cui abbiamo costruito tale comportamento, cosa che potremmo aver fatto per osservazione diretta o, indirettamente, per il tramite delle informazioni acquisite da persone che conosciamo e, a loro volta, che conoscono gli interlocutori che incontreremo.

Nel primo caso, teoricamente, la confidenza è maggiore, anche se non si deve dimenticare che anche noi, interpretando ciò che osserviamo, lo facciamo alla luce dei nostri filtri interpretativi, anch’essi influenzati dai nostri pregiudizi e dal nostro specifico vissuto (educazione, credo politico e religioso, consuetudini, …); nel secondo caso il problema si complica, visto che aggiungiamo ai nostri filtri, anche quelli delle persone che per tale comportamento fungono da messaggeri.

Penso sia capitato a tutti, in previsione di un incontro con una persona non conosciuta, ma che riveste un ruolo importante per ciò che facciamo (un cliente, un professore dei nostri figli, un medico, …), che qualche amico ci abbia detto qualcosa del tipo “ah, devi incontrare tizio? Fai attenzione, che quello dice una cosa ma sembra che ne voglia intendere un’altra” oppure “Tizio? Oddio, ha sempre un atteggiamento di superiorità e non sai mai se quello che ti dice lo pensa veramente!”.

Infine, non bisogna dimenticarsi della causalità che esiste - e che peraltro giustifica l’importanza dell’aspetto non verbale della comunicazione - tra ciò che il corpo comunica e ciò che la mente pensa, per cui la progressiva costruzione del comportamento basale, al di là delle modalità con cui si realizza, è anche una progressiva focalizzazione della natura stessa dell’interlocutore, del suo carattere, cosa che ci porterà, inevitabilmente, a farci un’idea, a crearci delle aspettative, che vanno oltre la sua semplice gestualità. Ad esempio, se osservassimo, nel tempo, una persona che tende a stringere la mano con il dorso orientato verso l’alto, saremmo portati a concludere che quella persona è altezzosa, che si sente superiore agli altri, cosa che ci porterebbe, anche in modo non del tutto conscio, ad approcciarla in modo diverso da quanto faremmo se ciò non fosse.

Tutte queste informazioni, più quelle che otteniamo da altre fonti, sono il modo in cui costruiamo il comportamento basale, ma sono anche i mattoncini che, gradualmente, danno corpo ai nostri pre-giudizi e pregiudizi, che poi influiranno inevitabilmente sul modo in cui approcceremo gli interlocutori, condizionati dal nostro giudizio aprioristico, che ci porterà a classificarli ancor prima di incontrarli. Facendo riferimento ai due esempi dati sopra, potremmo essere portati a etichettarli, rispettivamente, come persone subdole o superbe, cosa che ci farà correre il rischio di interpretare ogni loro gesto, ogni loro mimica facciale, come elemento di conferma di ciò che abbiamo ipotizzato, dando vita a quello che viene normalmente riferito come bias cognitivo.

Il comportamento basale, quindi, deve essere visto - e utilizzato - come un punto di partenza, come una sorta di stele di Rosetta che getti le basi della comprensione del linguaggio del corpo dei nostri interlocutori e non, al contrario, come un’ipotesi da verificare nei fatti, durante l’interazione. Il comportamento basale, infatti, non è qualcosa che possa essere giusto o sbagliato, che debba essere provato o smentito: semplicemente, è una iniziale chiave interpretativa, che gradualmente lascia il posto al fluire della comunicazione e che da essa si arricchisce con nuove informazioni, che possono integrare o correggere quanto già pensavamo di conoscere.

La regola delle “3 C” e il comportamento basale, quando applicati con raziocinio, altro non sono che un modo di mitigare gli errori che possono derivare dalla mera applicazione della teoria dell’interpretazione del linguaggio non verbale - errore che agli inizi peraltro si fa spesso - guardando esclusivamente ai gesti e alla mimica (6) (7), guidati da regole che, in quanto tali, sono necessariamente generali e debbono quindi essere calate, ancora una volta, nel qui e adesso più volte richiamato.

La pedissequa applicazione delle regole - qui mi sto prendendo una certa libertà interpretativa - altro non è che una diversa forma di pregiudizio, quello che ci fa credere nella loro universalità, facendoci ignorare che ogni atto comunicativo fa storia a sé e richiede, quindi, un’interpretazione immanente, che benché ispirata dalle regole apprese ne richieda comunque una loro contestualizzazione.

Sembra tutto molto complicato e, invero, lo è. Ma ritengo sia sempre meglio affrontare le cose consapevoli delle difficoltà che celano, piuttosto che farlo con superficialità, applicando meccanicamente regole senza sforzarsi di contestualizzarle, confidando nella assolutezza dei nessi causali che legano un gesto a un significato (“ha incrociato le braccia, quindi non c’è dubbio che si stia chiudendo e mettendosi sulla difensiva”). 

Andrea Zinno - De Corporis Voce


Riferimenti bibliografici

  1. Ferdinando Menga - “Sulle opinioni largamente diffuse: dal “pre-giudizio” al “pregiudizio” (sugli altri)” - 2017
  2. Ludwig Wittgenstein - “Ricerche filosofiche” - 1953
  3. Martin Heidegger - “Essere e tempo” - 1927
  4. Hans Georg Gadamer - “Verità e metodo” - 1960
  5. John Searle - “Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind” - 1983
  6. Allan Pease e Barbara Pease - “The Definitive Book of Body Language” - 2006
  7. Paul Ekman  e Wallace V. Friesen - “Giù la maschera. Come riconoscere le emozioni dall'espressione del viso” - 2007
  8. Paul Ekman - “Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste” - 2010