Le relazioni
reciproche sono alla base del nostro essere
nel mondo e lo sono a tal punto che il nostro organismo, nel tempo e con
l’evoluzione, ha sviluppato e codificato
alcuni programmi a livello
fisiologico, in grado di attivarsi ed eseguirsi in modo autonomo, non guidato
dalla nostra volontà.
Ogni momento comunicativo e d’interazione, quindi, è guidato da comportamenti consci e inconsci, l’unione dei quali condiziona l’andamento e l’esito dell’atto comunicativo, che a mio avviso è una sorta di olismo, dove la risultanza dell’atto stesso trascende la somma delle sue singole componenti: verbali, para verbali e non verbali.
Uno degli elementi più importanti, che può essere conscio o meno, è quello della mimica, cioè del seguire il nostro interlocutore nelle modalità con le quali comunica e interagisce, potendo decidere, per quanto riguarda la parte conscia o controllabile (ritornerò su questo punto più avanti), quando e come farlo, inclusa ovviamente la possibilità di non farlo affatto.
Esiste, in primis, quella che a me piace chiamare “mimica fisiologica”, involontaria e per questo difficilmente controllabile, che esiste in virtù dei neuroni specchio (1) – benché sia oramai universalmente riconosciuta la loro esistenza anche negli esseri umani, ciò che è ancora oggetto di dibattito è di cosa questi siano effettivamente responsabili (2) – e che, scevra da ogni condizionamento, potremmo definire ineluttabile, nel bene o nel male.
Questa mimica involontaria – ridiamo quando il nostro interlocutore ride e sbadigliamo con lui – crea una sorta di armonia tra gli interlocutori, che in un certo senso è neutra, proprio in virtù della sua involontarietà, del suo automatismo: semplicemente mimiamo, o tendiamo a farlo, ciò che l’altro fa, soprattutto quando ciò che fa ha un contenuto intenzionale chiaro e percepibile (o, in altre parole, quando percepiamo l’intento delle azioni del nostro interlocutore e creiamo, nel nostro cervello, una loro rappresentazione speculare, sia dell’intento che delle azioni necessarie a soddisfarlo) (5), in un modo che potrebbe anche sembrare decontestualizzato rispetto all’oggetto dell’interazione, della comunicazione, ma che ovviamente non lo è, visto che tutto risponde, in ultima analisi, agli stati emotivi vissuti durante tale interazione.
È una mimica involontaria, quindi, che pur nei sui limiti, sostiene e rafforza ciò che viene detto – ma che ovviamente può anche sminuirlo e contraddirlo – della quale sarebbe però bene riuscirne a esserne consapevoli, almeno in parte, visto che una mimica tout court non sempre conduce a ciò a cui l’interazione vorremmo conducesse.
Nello specifico della componente non verbale, la mimica indotta dai neuroni specchio può essere ascritta a quella, più ampia, che normalmente viene indicata come “eco posturale” (3), nel seguire, cioè, il nostro interlocutore nella sua gestualità, valutando quando ciò sia opportuno o meno in rapporto agli obiettivi che noi ci siamo posti e a quelli che, parimenti, si sarà posto lui.
Se un’eco posturale che ricalca una gestualità positiva contribuisce a rafforzare l’armonia tra gli interlocutori, rafforzando ciò che viene detto e creando una coerenza complessiva, si pone invece il problema di cosa fare quando il nostro interlocutore attui una gestualità o una postura (ricordo che qui stiamo parlando della componente non verbale e che con il termine postura indichiamo sia la gestualità che la mimica facciale) generalmente associate a una volontà di chiusura, in senso molto generale, e che quindi pone un potenziale ostacolo al prosieguo della comunicazione o, quantomeno, alla sua efficacia.
Una tale situazione, peraltro, ci porta rapidamente al tema più generale del ricalco, ben noto nella Programmazione Neuro Linguistica (4), che estende quando ci insegna l’eco posturale e ci porta verso il tema dell’avvicinamento all’altro, dell’accordarsi con lui e con l’esperienza che sta vivendo, del tentativo, insomma, di entrare con lui in empatia.
Il ricalco, inoltre, indaga principalmente le situazioni di iniziale disaccordo, di distanza e di allontanamento; quelle situazioni, cioè, dove è necessario una sorta di recupero, sia questo volto, ad esempio, a confermare una situazione affettiva o a chiudere positivamente una trattativa di lavoro.
Il ricalco, che include anche l’eco posturale, essendo questo una sorta di ricalco gestuale, non offre una soluzione univoca e universalmente accettata nel caso ci si trovi di fronte a una situazione negativa, di chiusura, dove la naturale contromisura dovrebbe essere quella di forzare un tale atteggiamento, sfruttando come grimaldello quanto ci insegna la PNL, per riportarlo a uno di fattiva collaborazione.
È proprio sulla forzatura che non esiste univocità di vedute, potendosi questa realizzare:
Volendo fare un esempio chiarificatore (almeno spero), si pensi a due escursionisti, uno dei quali con un passo significativamente più spedito dell’altro, che si trovino in una situazione dove la differente cadenza possa potenzialmente creare una situazione di rischio, ad esempio il non raggiungere la meta prima del calar della notte. In un tale scenario, i tre approcci appena descritti, porterebbero a:
Se risulta
evidente – almeno è ciò che spero – che il punto 3 sia quello che sposa in
pieno la tecnica del ricalco, la cui
efficacia è ben nota (soprattutto rispetto agli altri due punti), quello che
ritengo meno evidente è la sua applicabilità
universale, visto che, come peraltro ho provato a discutere in questo
precedente articolo, l’interazione e la comunicazione umana sono
così sfaccettate e complesse da richiedere sempre un approccio che tenga conto
del chi e del qui e adesso, aspetti che sostanzialmente rifuggono ogni tentativo
di codifica a priori, che al più può essere utile come spunto, come buona
pratica nei casi di totale ignoranza dell’altro, ma che invece deve essere
sempre specializzata quando ciò non
sia.
Andrea Zinno - De Corporis Voce